Lo strano caso di Phineas Gage e le metodiche nella cura dei disturbi mentali

Era il 1999 quando iniziai il mio primo semestre di tirocinio post laurea in psicologia: mi fu assegnato un posto al San Martino, l’ex ospedale psichiatrico provinciale di Como.

Foto antica del manicomio s. Martino di Como vista dall'alto
Manicomio di Como

La legge numero 180 del 1978, comunemente associata allo psichiatra Franco Basaglia, aveva fatto si che non esistessero più i manicomi, furono tutti chiusi o dismessi in quegli anni, in seguito alla riforma sanitaria e psichiatrica. Nonostante questo molti non si chiedono dove siano state messe le milioni di persone che occupavano i manicomi in quei tempi e negli anni a seguire.

In effetti i manicomi furono ristrutturati, sotto forma di comunità terapeutiche più piccole e centri di riabilitazione.

Ma cosa ne è stato dei cosi detti malati “residuali”? Cioè quella cospicua fetta di “malati mentali” che non avevano una collocazione definita a causa della loro patologia?

Al momento del mio tirocinio nel territorio occupato dal San Martino risultavano presenti un numero esiguo di queste comunità, alcune meno accessibili a causa della “pericolosità” dei residenti.

Il miei compiti di tirocinio purtroppo non erano molto ben definiti e venni “parcheggiato” all’interno di una delle strutture insieme agli infermieri e agli ospiti: considero questa precoce esperienza una delle più significative della mia storia come clinico.

Ebbi accesso a tutte le cartelle storiche dei pazienti che risiedevano li dagli anni 50 e 60, e fu interessante leggere come una persona potesse essere definita “insana di mente” e poi reclusa per il resto della vita. Mi viene in mente la storia di Giuseppina, diagnosticata “oligofrenica”: passava la maggior parte del tempo in piedi o seduta nell’atrio, senza dire nulla, semplicemente cantando litanie o filastrocche in maniera ripetitiva. Giuseppina aveva circa 70 anni ormai ma fu ricoverata in manicomio da giovane donna, intorno ai 18. Leggendo la sua cartella si potevano evincere le cause del suo ricovero e riporto come mi ricordo cosa scriveva il medico dei tempi: “il soggetto viene ricoverato per continue liti con i genitori e tentativi di fuga da casa per trovarsi di nascosto con il fidanzato”.

Al secondo o terzo tentativo di fuga, tipicamente adolescenziale dei tempi, Giuseppina venne rinchiusa in manicomio e purtroppo non è mai più uscita.

Come Giuseppina mi vengono in mente diversi personaggi che ho avuto modo di conoscere bene: tutti erano ormai in manicomio da più di 50 anni, quella in fondo era la loro casa, anche se vi avevano sofferto le pene dell’inferno. Mi chiedevano spesso: “Marco, dove mi porteranno? Io non voglio andare via, questa ormai è la mia casa”. Sì perché un altro problema era il susseguirsi della rassegnazione funzionale delle strutture e l’età dei pazienti: molti erano da li a poco destinati ad essere trasferiti in case di riposo o strutture simili. 

Resta da chiedersi se alla fine, dopo tutto, lo spostamento di persone attraverso le riforme abbia veramente giovato agli utenti.

Quello che però salta all’occhio, tornando alla lettura delle cartelle cliniche degli anni passati, è la motivazione che portava alla reclusione definitiva delle persone nei manicomi.

cartella clinica
cartelle cliniche

Certo c’erano casi di persone schizofreniche, con agiti imprevedibili o violenti, ma leggendo bene emergevano diagnosi stravaganti: venivano ricoverati i sordomuti, che magari faticavano ad integrarsi nella società a causa della situazione socio-familiare un po’ povera culturalmente; venivano ricoverate adolescenti o giovani donne un po’ troppo “estroverse” per la società del momento; persone o bambini con handicap lievi o moderati, dentro; persone affette da epilessia; insomma chiunque risultasse un po’ troppo “diverso” per l’opinione pubblica o per le famiglie di quel periodo storico poteva essere un buon candidato per una “gita al manicomio”; il problema è che nei manicomi si sapeva bene quando si entrava, ma non si sapeva se o quando si usciva.

Poi mi viene in mente Emilio, un signore anche lui sopra i 70 anni, al San Martino da quando era un giovanotto. Emilio soffriva di una forma di schizofrenia catatonica, in pratica passava tutto il giorno a fare un passo avanti e un passo indietro stando in piedi in un angolo del corridoio. Si spostava solo se accompagnato da qualcuno e per sedersi ai pasti. Poi tornava nel suo angolo a fare un passo avanti e uno indietro, chi sa da quanti anni.

All’interno del grandissimo giardino dell’ex OP c’era una vecchia chiesetta, molto suggestiva e spesso prendevo la scusa di visitarla per portare un gruppetto di ospiti a fare un giro per il parco.

Una bella mattina soleggiata partiamo per il giretto con 4 o 5 ospiti tra cui Emilio, lui non parlava mai, non faceva gesti, camminava solo se spronato guardando verso il basso. Aveva solo il suo infinito ritiro catatonico. Quel giorno successe una cosa interessante: Emilio camminando sbatté la testa contro una persiana che non era stata chiusa bene, non si fece molto male, solo un bernoccolo, ma nel momento della botta alzando la testa vidi nei suoi occhi un momento di lucidità, disse una frase del tipo “oibò che botta”, rise un attimo massaggiandosi e poi tornò a guardare il pavimento. Mai più una parola, mai più un gesto diverso dalle sue catatonie.

Questa esperienza mi fece riflettere molto. Le interpretazioni psicologiche o neurologiche potrebbero essere diverse, ma la mia sensazione fu che quella forma di ritiro fosse in parte una scelta, una scelta obbligata dalla sofferenza personale e finalizzata alla sopravvivenza. 

Le cure psichiatriche manicomiali

Ma qui vorrei aprire il capitolo delle cure psichiatriche manicomiali e non: spesso le cure più truci e sadiche che hanno caratterizzato la storia della psichiatria sono nate da questo concetto, e cioè che per interrompere uno stato di pazzia, bisognasse inserire una sorta di trauma.

Se la pazzia veniva considerata come una distorsione del normale stato mentale o di coscienza, molti “illuminati” e anche qualche premio Nobel avevano ben pensato che si potesse curare semplicemente inserendo degli “shock” all’interno dello stato mentale dei soggetti.

manicomio letto

Detto questo nacquero interessanti e folcloristici metodi di cura di cui vado ad elencare solo alcuni esempi:

  • Lo shock insulinico inventato da Sakel nel 1932: veniva iniettata una dose tale di insulina in modo da mandare in coma il paziente, ma quanto meno lo distoglieva dalla pazzia!
  • Vi sono poi altri tipi di shock chimico, che avevano lo scopo o di mandare sempre la persona in coma o di provocare un forte attacco epilettico o un trauma profondo. Tra le sostanze che sono state usate, citiamo il cardiazol, l’acetilcolina, l’indoklon e l’etilaldeide.
  • I bagni o le docce gelate in catini contenutivi e senza via di fuga erano un altro metodo, oppure bagni gelati a sorpresa come gettare i pazienti in fiumi o pozzi. 
  • Si legge in certi testi che con alcuni pazienti venisse inoculato il virus della malaria per provocare febbri altissime che potessero portare ad una sorta di “risveglio” dalla malattia.
  • Alcuni malati venivano fatti precipitare da grandi altezze “controllate”.
  • Ostruzione di alcune arterie cerebrali con conseguente disabilità permanente.
  • Castrazione chirurgica e asportazione delle ovaie (metodo principe per chi soffriva di masturbazione compulsiva).
  • Ferri roventi appoggiati in zone delicate del corpo.
  • Clitoridectomia; usata per le donne che si masturbavano e per quelle “isteriche”; anche su questa terapia psichiatrica troviamo vari scritti dove viene lodata soprattutto perché dopo l’intervento “tutto induce a credere che la cessazione delle sue vergognose abitudini masturbatorie sia permanente”. Un libro intero venne scritto sull’argomento da Baker e Brown sulla curabilità di talune forme di follia, di epilessia, di catalessi e di isteria nelle donne, (Londra, 1866).
  • Privazione del cibo.
  • Isolamento.
  • La famosa camicia di forza.
  • Macchina rotatoria: è in pratica una sedia sulla quale veniva legato il paziente. La sedia era collegata ad un meccanismo che la faceva ruotare velocemente su se stessa o percorrendo un binario a cerchio.
  • Finte operazioni chirurgiche: per chi credeva di essere malato, veniva aperto o tagliato, poi ricucito, gli veniva detto che era guarito grazie all’intervento. (sarà stato il precursore della teoria dell’effetto placebo?).
  • Inoculazione della scabbia.
  • Applicazione di sanguisughe.
  • Soffocamento prolungato.
  • Iniezioni sottocute di sostanze tossiche dolorosissime, come la veratrina.

Tutti questi metodi non sono lontani nel tempo ma appartengono alla storia psichiatrica di fine 800 e primi 900, ma alcuni metodi si sono protratti fino ai giorni nostri o poco prima, basti pensare alla terapia elettro convulsiva, conosciuta come “elettroshock”, che si sa viene tutt’oggi utilizzata in certi paesi, ovviamente sotto stretto controllo medico e con l’aiuto di antiepilettici. Sembra essere ancora una delle terapie “invasive” rimaste che mostra dei risultati “soddisfacenti” nella cura delle depressioni maggiori croniche.

Phineas P. Gage

Non mi soffermo sulle mille ragioni mediche e sugli anni di torture che migliaia di persone hanno dovuto subire, perché avevo interesse a descrivere finalmente “lo strano caso di Phineas P. Gage”.

Phineas Gage

Phineas P. Gage fu un operaio americano addetto alla costruzione delle ferrovie, noto per un incidente capitatogli nel 1848: sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta di metallo appuntita che gli trapassò il cranio.

L’asta gli distrusse gran parte del lobo frontale sinistro del cervello ma non lo uccise o lo menomò dal punto di vista delle funzioni di base. La lesione ebbe invece effetti sulla sua personalità e sul suo comportamento nei suoi restanti dodici anni di vita, al punto che i suoi stessi amici avevano difficoltà a riconoscerlo. 

È conosciuto per essere diventato uno dei casi di studio più famosi in neurologia (citato come “American Crowbar Case”).

Fu un incidente sul lavoro avvenuto nel pomeriggio del 13 settembre 1848 vicino alla città di Cavendish, mentre Phineas inseriva una carica esplosiva in una roccia che doveva essere fatta saltare in aria perché bloccava il passaggio della linea ferroviaria in costruzione.

A causa dell’esplosione accidentale della polvere da sparo, il ferro di pigiatura che Gage stava usando per compattarla schizzò in aria e attraversò la parte anteriore del suo cranio, provocandogli un grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello.

asta gage
cranio gage

Miracolosamente sopravvissuto all’incidente, già dopo pochi minuti Gage era di nuovo cosciente e in grado di parlare; i presenti ai fatti raccontano di aver ritrovato l’asta metallica «imbrattata di sangue e cervello». Dopo tre settimane poteva già rialzarsi dal letto e uscire di casa in maniera del tutto autonoma. La sua personalità però aveva subito delle sostanziali trasformazioni, al punto che gli amici non lo riconoscevano, in quanto divenuto intrattabile, in preda a variazioni di umore estreme e incline alla blasfemia. I vecchi datori di lavoro si rifiutarono di riprenderlo con loro ma Phineas trovò un nuovo lavoro come conducente di diligenze e visse altri 12 anni dopo l’incidente.

cranio con lesione

L’incidente lesivo di cui fu vittima ha probabilmente causato l’enorme cambiamento nella sua personalità emotiva e relazionale, trasformando il Sig. Gage in una persona talmente priva di freni inibitori sul piano verbale, da risultare irosa e asociale, ed un cambiamento della sua capacità di fare previsioni sulla base dei dati acquisiti, rendendolo incapace di valutare i rischi delle sue azioni.

Gli studi sulle condizioni di Gage hanno apportato grandi cambiamenti nella comprensione clinica e scientifica delle funzioni cerebrali e della loro localizzazione nel cervello, soprattutto per quanto riguarda le emozioni e la personalità.

È anche in seguito alle riflessioni teoriche avviate in conseguenza di questo caso che, per alcuni decenni della metà del XX secolo, sono stati usati metodi, oggi in totale disuso, come la lobotomia prefrontale per curare certi tipi di disturbi del comportamento.

Il teschio di Gage e il bastone di ferro che ha causato il trauma cranico sono esposti al pubblico nel museo della Harvard Medical School.

Nel 1994 il team della neuroscenziata Hanna Damasio (moglie di Antonio Damasio) è riuscito a ricostruire virtualmente, dal teschio conservato, le aree del cervello compromesse.

Nel 2012 un team di ricercatori dell’Università della California di Los Angeles ha simulato l’incidente per analizzare le lesioni della materia bianca che collega tra loro diverse parti del cervello. Non è stato possibile utilizzare il cranio originale dato che, a circa due secoli dall’incidente, la struttura risulta estremamente fragile. Per questo motivo, il team di ricercatori ha utilizzato l’ultima tomografia del cranio, risalente al 2001. Dopo averne migliorato la risoluzione, ne hanno ricavato un modello in 3D. Sul modello hanno potuto ricostruire l’incidente e concludere proponendo l’ipotesi che il cambio di personalità manifestato da Gage sia stato dovuto al danneggiamento di una quantità maggiore al 10% della materia grigia cerebrale delle reti neurali localizzate nell’area della corteccia frontale e prefrontale, che permettono all’essere umano di ragionare e ricordare.

Con questo breve pezzo di storia volevo arrivare  alla terapia che maggior gloria ha mai dato ad uno psichiatra e che è certamente la lobotomia o lobectomia, che ha poi visto vari tipi di varianti quali la leucotomia o la topectomia.

Egas Moniz

Nel 1936, lo psichiatra Egas Moniz pubblicava il suo primo studio, dove descriveva la sua tecnica, provata su decine di cavie umane.

Egli apriva il cranio del soggetto e distruggeva i lobi frontali del cervello, quelli dove risiedono le funzioni cerebrali superiori (quelle che permettono all’uomo di avere idee, opinioni, pensieri, immaginazione, capacità creativa, ecc.). Insomma danneggiava deliberatamente le aree della mente che più ci rendono “umani” sotto certi punti di vista.

Alcuni altri psichiatri, Fiamberti di Varese e Freeman di Washington, migliorano poi la sua tecnica, evitando la trapanazione del cranio e distruggendo la parte anteriore del cervello per mezzo di uno stiletto, infilato attraverso l’orbita oculare.

Alcune tecniche poi più “moderne” furono attuate con l’ausilio di sottili aghi uncinati, che venivano  invece fatti passare attraverso il naso e che poi andavano a raschiare aree a caso della corteccia frontale. Da qui anche il termine di “resezione dell’encefalo o della corteccia”.

Il “malato”, dopo l’operazione, citando le parole dello psichiatra Gayral risulta: “Confuso e imbecillito, scorda le sue preoccupazioni anteriori e diventa gaio”.

Nonostante il cambiamento della personalità, continua Gayral, egli potrà ricostruirsi una vita, “partecipando alle attività elementari della comunità. 

In Italia nel 1949, padre Agostino Gemelli, frate e psichiatra, scrive un saggio sulla lobotomia. Leggiamo le sue parole: 

“…Questa operazione è oggi entrata nell’uso comune: anche in Italia fu eseguita specie per opera del Fiamberti… e si può calcolare che siano state 10.000 — sino a quell’anno — le leucotomie eseguite in tutto il mondo… in un terzo dei casi si ebbe un esito ottimo, in un terzo circa un buon risultato e quasi in un terzo un limitato successo. La mortalità totale fu del 5%… oggi la psichiatria tenta nuove vie per curare quei malati di mente che un tempo si abbandonavano…”

Egas Moniz dovrà comunque attendere tredici anni dai suoi primi “esperimenti”, sino appunto al 1949, per vedere il riconoscimento del proprio lavoro. In quell’anno infatti egli viene insignito con il Premio Nobel per la medicina, per la sua cura della schizofrenia, mediante lobotomia. 

Sì, è proprio così: l’inventore della lobotomia, che utilizzò centinaia di pazienti cavie a cui vennero indiscriminatamente distrutte aree massicce del cervello, si meritò il Nobel per la medicina!

lobotomia
lobotomia
attrezzi per lobotomia
lobotomizzato

Sembrerebbe che ancora oggi si pratichino in psichiatria interventi di microchirurgia encefalica mirati e migliorati, ma purtroppo i risultati sono abbastanza simili a quelli di 70 anni fa.

La psicochirurgia, nelle sue varie forme, viene ancora oggi proposta per coloro che non hanno raggiunto i risultati sperati con molte sedute di elettroshock.

Il numero dei lobotomizzati viventi, in tutto il mondo, non è noto, ma le stime variano da un minimo di 100.000 ad un massimo di 200.000 persone.

Il lettore si chiederà come mai tutta questa manfrina sulle tecniche psichiatriche d’altri tempi.

Sono ormai 25 anni che frequento il mondo della clinica psicologica e psichiatrica. Ho conosciuto centinaia di esperti e centinaia di pazienti: grazie alle moderne scienze psicologiche si sono evolute discipline come la Psicoterapia e per fortuna si è compreso che la mente, anche se prodotta dai “circuiti” di un meccanismo molto complesso come il cervello, non può comunque essere ridotta ad un semplice organo che si rompe.

La natura umana è una natura complessa, sia nel corpo che nel prodotto del suo funzionamento.

Le reti neurali del cervello producono comportamenti complessi, producono pensieri e ragionamenti, producono emozioni, ma soprattutto producono quel fenomeno complesso e ancora misterioso che è la mente umana.

Purtroppo la mente o la coscienza non possono essere ridotti all’organo che comunque le produce, sono delle manifestazioni dinamiche e infinitamente profonde, che necessitano di cure dedicate e che non si approccino come se ci fosse “qualcosa da aggiustare”.

Benché ormai le ricerche più recenti in psicoterapia abbiano dimostrato che le terapie che “funzionano” sono quelle basate sulla relazione tra cliente e terapeuta e non le centinaia di tecniche che si vendono anche on line, purtroppo in giro si trovano specialisti e tecnici della mente che ancora oggi pretendono di conoscere come aggiustare il problema applicando questa o quella metodologia.

Non importa che esistano il neurofeedback, l’emdr, l’ipnosi, la mindfulness e chi più ne ha più ne metta: il punto è che sono solo delle tecniche che possono aiutare in un percorso molto più ampio, che è quello della psicoterapia relazionale, un percorso che non può dimenticarsi che di fronte abbiamo una persona che si è adattata alla vita in molti anni e che solo lei è il prodotto delle sue esperienze e che solo lei conosce davvero in profondità le vie della guarigione.

Non si può pretendere di aggiustare una cosa che si è rotta, se non abbiamo ancora la minima idea di che cosa si è veramente rotto dentro a una persona e perché magari si è rotto, o perché magari gli convenga tenerselo rotto.

La storia dei manicomi, di Phineas e delle metodiche di cura invasive vuole solo essere una suggestione per far riflettere su cosa rappresenti il concetto di terapia all’interno di un contesto così ampio, così complesso, mutevole negli anni e soprattutto riguardante il mondo interno delle persone.

” Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo

        -cit. Sua Santità il Dalai lama-

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